28 giugno 2014

Ultimo atto [Valentina Luberto e Miriam Catera]



Attesa, 1965, Fontana

Rossa Speranza, distesa sull'asfalto, sei mia vittima innocente.
Sono quell'attimo prima che accada qualcosa, quando si ha il presentimento che accadrà, cadendo da una qualche altura verso la quale si puntava lo sguardo prima di andare a dormire, quando le membra stanche gridavano il riposo, ma gli occhi ancora puntavano alla vetta, in un ultimo, sospirato, attimo di speranza.
Sono lì, proprio in quel gesto che si solleva, che sta teso fino a farsi male, come lo stare in punta di piedi di una ballerina ansiosa.
Sono lì, in quel crampo allo stomaco, quando ancora non si arriva alla coscienza del dolore, dell'interruzione, ma già gli acidi si mettono al lavoro dall'interno, e cominciano a corrodere un bel sentimento.
Sono lì, con lo sforzo del capo sollevato, quando il collo non riesce più a sostenere il peso di tutti quei pensieri d'amore che si stanno spegnendo; non sono riusciti a trovare un modo per volare, per farsi ascoltare o accogliere da uno sguardo altrettanto innamorato.
Sono lì, nella mano che puntava alle stelle, quando perde la sicurezza e comincia a tremare e l'indice si fa pesante, sta per perdere la strada verso il cielo.
Sono lì, ora. E cado.
Vado lentamente, non voglio che finisca subito, perché sento ancora la tensione dell'amore, perché anche "l'attimo prima" ha un cuore che non ce la fa ad arrendersi.
E l'indice scivola sulla tela rossa, scivola sulla speranza che pareva granito, un castello incrollabile da abitare.
Il capo s'abbassa, ha perso di vista il cielo e le spalle si sono fatte pesanti.
Lo stomaco s'agita, ché pure quello ama, ma che deve fare, preso dalle correnti acide del dispiacere, della mancanza e del desiderio mai realizzato.
Precipitare più lentamente di così non posso, perché il dolore è troppo, soffoca, e per respirare devo aprire il varco.
Perdonami Speranza, sono così stanco di patire, pago la mia presunzione, ho preteso di essere un'eternità, l'ho fatto per loro, perché vedevo il loro amore, come te,  e volevo aiutarlo a fiorire. Ma non ci sono riuscito. Ho capito che non spetta ad un solo attimo racchiudere un così grande sentimento, per quello, ci vuole più tempo.
Facevo un torto a loro, costringendoli a rivivermi all'infinito, costringendoli a tenere insieme tutto. E così ho finito per sospenderli in un unico gesto, li ho stretti lì, stritolandoli. Per questo ti ho ferito Speranza, e ho ferito me stesso, per lasciarli riprendere fiato. (*)



Red Plastic, 1964, Burri


Siamo così. Due voragini scure accartocciate in quello che prima era ed ora non è. Due maschere senza volto che, in fondo, si sono riconosciute, vissute, confuse e che si lasciano andare. Tra un lembo e l’altro di una storia che si chiude. Su se stessa, su tutto quello che ha animato la scena e che, ora, viene ingoiato dalla tenda rossa e malandata di un teatro di periferia. Uno di quelli con le poltrone scolorite, il tendone logoro, le locandine impolverate, capovolte e dimenticate. Uno di quei posti dove va solo chi ha nostalgia di ciò che un tempo era e ora non è più. Per non dimenticare, per chiudere gli occhi e vedere, ancora una volta, le poltrone di velluto rosso fiammante, il tendone rubino che apre la scena su tutto quello che deve accadere, il vociare eccitato del pubblico che ammutolisce appena le luci si spengono e l’occhio di bue diventa una buona scusa per sbirciare. In una storia che non conosciamo, che è di tutti e di nessuno, che è inevitabilmente anche la nostra. Il tendone si chiude, gli occhi si aprono. Il teatro sta cadendo a pezzi e noi ci stiamo dentro. Non scappiamo. Restiamo lì e ci facciamo ingoiare. Le maschere si sciolgono e in un attimo è buio. Non c’è più niente. Non ci siamo più.






[Grazie a Miriam Catera per aver dato voce all'Attesa di Fontana (*) e per aver regalato a questo post la colonna sonora]

[Per quanto riguarda Burri... spero non si arrabbi con me :D ]


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