26 luglio 2010

Picasso e lampioni ( di Valentina Luberto e un racconto ospite di Sario Laveneziana)

 
Questa è una storia vera. No, non storcere il naso, è vera posso assicurartelo e te l’assicuro con la stessa convinzione con cui ho addentato il mio pane e marmellata questa mattina.
Ascolta, c’era una volta uno schizzo, sì uno schizzo.
Era scappato dalle grinfie d’un pittore da quattro soldi, era uno schizzo raffinato lui e un giorno disse:”Basta! Non posso continuare ad essere torturato da questo incapace dal tratto rozzo e indelicato”. Come dargli torto? Lui al tratto ci teneva e anche alla sua reputazione. Un bel giorno, approfittando del pittore pasticcione che non trovava più i tappi dei colori, schizzò via!
Che bella la vita dello schizzo libero, quante cose nel mondo ancora da colorare e, soprattutto, quante parole, parole, parole… insomma, parole.
Lo schizzo, dopo tanto vagare, si trovò sotto un lampione.
“Che strano questo giallo, io un giallo così non l’ho mai visto! Magari sta male: lampione, stai male?”.
Lo schizzo era spontaneo, raffinato, ma spontaneo, qualcuno direbbe quasi un idiota.
Idiota nel senso più alto del termine s’intende, fatto sta, che il lampione non la prese proprio bene questa domanda e, per tutta risposta disse allo schizzetto impertinente:
”Chi saresti tu, piccolo ciuffo di colore andato a male? Questo è un “giallo lampione”, un tipico “giallo lampione” !”.
Lo schizzo divenne tutto rosso e si sentì proprio male, soprattutto perché il rosso con il giallo ci faceva proprio a pugni, era sempre uno schizzo raffinato lui!
“Scusa, ma ti ho visto così, giallo, tutto storto, insomma credevo avessi mal di pancia e ti contorcessi , che avessi fatto indigestione”, disse a mezza voce temendo le ire del lampione che non tardarono ad arrivare.
“Idiota!” disse a gran voce il lampione.
“Lo so!” disse fiero lo schizzetto.
“Io non sono un lampione qualsiasi, io sono stato creato da Picasso”.
Lo schizzetto divenne ancora più rosso: non aveva riconosciuto un Picasso!
Cercò subito di rimediare: “Picasso e lampioni?”, qualcosa gli diceva avesse peggiorato più che migliorato!
“Cos’avresti da dire? Picasso fa ciò che vuole, un giorno ha pensato a me e mi ha creato, così contorto perché in quel periodo ero un po’, come dire, sì, proprio contorto” il lampione diventava sempre più giallo e si contorceva sempre più!
“Ah, ecco perché non riuscivo a capirti, sai, io le cose contorte non le capisco, perdo sempre il filo e, quando lo ritrovo è troppo tardi, però, secondo me, con un tono di giallo più chiaro staresti meglio!”, osò proporre lo schizzetto che intanto volgeva all’arancio!
Il lampione diventava sempre più giallo e si contorceva sempre di più, lo schizzetto, che era sempre uno schizzetto esteta, ma anche un po’ idiota, non sapeva più come fare per stemperare quella tinta che i suoi occhi raffinati proprio non riuscivano a tollerare, così a gran voce, senza esitazione e con tutta la sicurezza di cui era capace esclamò:
“Ti consiglio di tranquillizzarti, il giallo così carico non è assolutamente elegante e non lo sei neppure tu con quel tuo fare arrogante e pittoresco!”
“Non capisci un lampione!” sentenziò il lampione ormai sull’orlo di una crisi di nervi!
Lo schizzetto si fece pensieroso, il suo colore adesso era blu, pensò che forse era vero, che i lampioni non li aveva mai capiti, quelli di Picasso, poi, non tentava neppure di provare a capirli, però una cosa la sapeva, il “giallo lampione” proprio non gli piaceva, Picasso l’avrebbe perdonato e lui sarebbe schizzato via alla ricerca di qualcos’altro da colorare, magari meno giallo e meno contorto, era sempre uno schizzo raffinato, lui!

Questo post lo regalo a Sario, che, in una simpatica conversazione sul suo "Asfalto e Kandinskij" (che propongo a seguire) me l'ha ispirato.

ASFALTO E KANDINSKIJ di Sario Laveneziana
Osservo l’aria – sì, riesco proprio a vederla. Nulla di entusiasmante nel farlo, ma a volte si è così impegnati a guardarsi le spalle per osservare ciò che respiriamo. Specchi opachi, piccoli impercettibili esagoni bianchi, oltrepassano il mio sguardo triste. Verso quest’inverno. L’inverno delle parole che lascio accumulare come neve dietro di me; e i ricordi e le memorie del mio io adolescente che ora mi sorride nel vetro diafano della mia macchina. Ed è terribile apnea osservare la propria vita – come in un video anni ottanta – scorrere su un finestrino sporco. Le passeggiate con papà, i primi giochi da tavolo, gli amici riuniti - uniti nello scazzottarsi per una partita al buon vecchio nintendo. La scuola, la maestra d’italiano e l’amore ancestrale per i libri. Leggevo tutto: dagli scontrini ai numeri del lotto il sabato per l’estrazione. Leggevo il messale la domenica e mia nonna sembrava contenta. Potevo tenere una monetina con me, dopo l’offertorio.Pensieri riversati su fogli bianchi e dopo neri accartocciati in ogni angolo della mia camera. Sparivano, come se la realtà li assorbisse e la carta si sgretolasse: poi ossigeno. Respiravo i miei pensieri.I primi amori, i primi amici, e gli ultimi.Ed è come se queste immagini si fondano e si separino trepidamente, e sono ora triangoli e ora circoli, un po’ come avrebbe fatto Wassily Kandisky in un quadro dove forme e colori possiedono un senso singolarmente – ed abbracciate ad altri segni.E’ un po’ come il mio inverno: io credo di essere un cerchio, chiuso in me stesso. Un cerchio blu. Profondo, solo, riflessivo. E ogni persona importante nella mia vita è ospite del mio dipinto, e insieme ci abbracciamo e ci mescoliamo, ci dividiamo evanescenti, ad un tratto. Ma il senso è quello che rimane.Svanisce tutto ora, rabbrividisco all’impatto. C’era un Kandisky sul finestrino, lo giuro. E’ andato via.Seduta in macchina, Clara sistema i suoi capelli corti dietro grandi occhiali vintage. Non riesce ad osservare l’aria. Ma sembra felice. Lo è. Anche io lo sono. – anche io lo sono?Sembro felice. Il cerchio chiuso in sé stesso – blu, sono io – ha assorbito ogni mio desiderio e impeto d’ equilibrio. Devo lasciare le montagne bianche per il caos cosmopolita di una vecchia città, per oltrepassare il mio inverno. E’ arrivata tre mesi fa. Sono le mani di mia madre che, come seta, fanno scivolare un foglio bianco sotto i miei occhi.- E’ la risposta dell’Accademia di Scrittura alla mia lettera!Era la risposta dell’Accademia di Scrittura alla sua lettera. Un suo regalo, brivido d’iniziativa e d’ingegno durante la depressione. Non credo che ne uscirà mai. Aveva raccolto i fogli umidi dei miei pensieri – accartocciati sul pavimento freddo della mia stanza – e li aveva mandati ad una scuola di scrittura. Sa quanto ami scrivere, ma forse non sa quanto ami lei. Mia madre soffre di depressione. Non credo che ne uscirà mai.Maturità conclusa, l’estate è finita.Ho fatto i bagagli, ma ho lasciato fuori le cose più importanti: i miei libri, la mia clessidra, e l’Amore. L’amore-ossessione per ogni singolo pezzo d’asfalto che circonda la mia casa, i sorrisi dei miei amici che ieri sera tramontavano come la luna, l’abbraccio di mia madre nella sua stanza da letto. Eppure, sorrideva. Sapeva di aver compiuto il suo scopo, concedermi un illusione di futuro. Sapeva che domani mi sarei trovato in una città sconosciuta quasi da solo senza il mio eterno inverno, e la neve sulle mie montagne. Eppure, sorrideva.Clara ha smesso di toccarsi i capelli e si è perfettamente posizionata in macchina. La riesco proprio a vedere, occupa la forma perfetta di una donna seduta sul sedile anteriore, pronta per un lungo viaggio. Non siamo soli. I nostri bagagli sono simulacri di ricordi, e ne ho preso uno per ogni persona importante.C’è il gioco in cassetta regalatomi da Andrea, il mio primo bacio – pagina di diario scritta a quattro mani narrante il leggero sfiorarsi di labbra con lei – il messale di mia nonna, la cravatta di papà. Di mia madre non ho nulla, non serve nessun oggetto per evocare il suo ricordo. Basterà respirare, come quando credevo di respirare i miei pensieri, nella mia stanza. Ricorderò.<<>>Clara allaccia la cintura mentre il rumore della mia macchina strugge la solitudine dell’asfalto. Lei, verrà con me. Non possiamo separarci. Studierà lì, la città è piena di risorse per tutti. Sarà un ottimo veterinario.Non siamo due simboli diversi nel dipinto di Kandisky: siamo forma e colore. Lei è il mio cerchio concentrico, io il suo blu intenso. Profondo e malinconico. Come i nostri corpi, i segni ora sono infinitamente due, ora Uno, uno solo. Bramano di sciogliersi ogni volta ed incastrarsi uno nell’altro, nel perfetto gioco del sesso, dei respiri e dei brividi – ci amiamo anche così, accarezzando i nostri corpi, io e poi lei.E mi incammino tra le strade lontane dalle mie montagne, portandomi via un pezzo d’inverno trascinandolo con forza sulle mie spalle, e l’autovettura quasi rallenta al contatto. So che un giorno narrerò il mio Kandisky, la mia neve e il mio asfalto in un libro che molti potranno leggere, e ritornerò qui per gridare e sussurrare e gridare ancora il romanzo che con il mio vagito iniziai a scrivere, e ora con ogni respiro segno virgole e punti.

24 luglio 2010

Partenze sgualcite e sogni da provare ad indossare


Certe partenze non sono come le altre; te ne accorgi dal volume che occupano i bagagli nell'abitacolo della vettura. Molti pensano che un'auto piena riveli una partenza che non preveda un ritorno a breve. Io, invece, penso che più vuota sia l'auto, più voglia si abbia di partire e, forse, son proprio quelle le partenze che mettono in dubbio persino un ritorno. Ho un'auto piccola, una di quelle che quasi non vedi. No, non l'ho presa così perché "è di moda", la mia scelta ha un senso ben diverso. Ho sempre pensato non sarebbe mai stato lo spazio d'una vettura quello che avrei avuto assolutamente bisogno di riempire e, allo steso modo, ho sempre saputo che le cose a cui non avrei mai voluto rinunciare partendo sarebbero entrate in molto meno spazio di quanto si potesse pensare. Quello di cui ho sempre avuto bisogno occupa lo spazio che c'è tra me e i miei sogni. I sogni, quelli, poi, non li lascerei a casa mai! Quelli, son adagiati con cura nella "valigia" a cui tengo di più. "Cuore" lo chiamano tutti così; io la chiamo "valigia dei sogni". Se non fosse che quella forma con due curve e una punta, dicono rivolta verso sinistra, qualche volta la trovi così difficile anche solo da nominare, forse, i miei sogni, ci starebbero anche più larghi dentro. E' lì che li ho sempre adagiati, qualche volta ripiegandoli con cura, altre volte lasciando che qualche piega ne segnasse la superficie ché si sa, non tutti riesci a toccarli per davvero, così, ci lasci qualche segno almeno per non dimenticarli. L'ho appena detto, io con quella "valigia" lì ho un raporto difficlie, ma è anche quella a cui tengo di più. Lo so che ti stai chiedendo "perché" ed io vorrei davvero affidarti una risposta, ma non ce l'ho! Forse è perché, tutte le volte che la apro, i sogni sgualciti son molti di più di quelli piegati con cura che hai indossato o stai per indossare e, forse, è proprio per questo che oggi sto partendo. Lascio quelli che dovrebbero essere i "miei posti", quelli che mi hanno vista crescere, soffrire, gioire e che, ora, non possono nulla per trattenermi qui. Adesso ci siamo soltanto io e una partenza sgualcita che non si può più rimandare. La macchina è pronta, nell'abitacolo nessun bagaglio, solo la mia "valigia dei sogni", solo il cuore ché dovunque vada, qualsiasi cosa succeda: è lì che abito. Da sempre.