31 gennaio 2012

Strappi dell'anima (di Valentina Luberto e Pasquale Chirchiglia)


Da una visione di Valentina, un delirio di Pasquale...



Immagine: "Srappi dell'anima" di alito_di_vento_è_chi...


La visione

L’uomo con il paltò bianco fende la notte scura, come una lama. Un passaggio e una goccia, una goccia e qualcosa che scorre via. Lenta.”Chi sei?“ gli urla qualcuno alle spalle. Lui non si gira, prosegue con il suo passo pesante e deciso, resta in silenzio. L’altro ammutolisce, come fosse l’unica possibilità. Ogni notte, lui appare e abita le strade della città, non è mai nello stesso luogo per troppo tempo. “Cosa cerchi?” gli chiede, a bassa voce, qualcuno alle spalle. Non si gira, prosegue anche stavolta. Tra una goccia e l’altra di qualcosa che scorre via nella notte. L’altro? Ammutolisce, come non si potesse fare altrimenti. Il paltò bianco continua a ferire la notte e qualcosa continua a scorrere via. Lui non accenna a mutare neppure un passo, non uno.

Il delirio

Cambiano gli interpreti, cambiano le dinamiche. Le motivazioni.
Ma la desolante scena che gli si presenta è la solita. Un corpo giace inerte.
Il sangue che prima fluiva nelle vene, ora si mischia alla sporcizia della strada.
La pioggia lo laverà via. Ma questo non gli interessa.
Ha la sua missione, l'uomo col paltò.
Solitario, scivola nella notte, incurante di ciò che lo circonda.
Quando lo vedi, è troppo tardi. Indietro non si torna.
Segue la scia, segue il destino. Lui è quello che è. Al di sopra del bene e del male.
Non si sofferma a pensare spesso. Il rischio sarebbe di impazzire.
Meglio non porsi domande, e seguitare nel compiere il suo dovere.
Giunge a destinazione.
“Eccoti”. Il suo è un sussurro. Non serve urlare.
“Tu chi sei?”. Smarrimento e paura assalgono l'uomo.
“Non devi temere, non sono qui per farti del male.”
“Non so chi tu sia, ma io me ne vado.”
“E dove pensi di andare?”
“A casa, ecco dove. Ma tu cos …”
“Seguimi. Ti porterò io a casa.”
Il tono è fermo, ma non minaccioso. Eppure, l'uomo non può fare di seguirlo.
L'uomo col paltò percorre a ritroso la strada di prima.
Il suo accompagnatore dietro di lui, senza perdere un passo.
Ora la scia di sangue è raggrumata. Il corpo è sempre lì, attorniato da poliziotti.
“Guarda.”
E l'uomo, inerme, guarda la scena.
Vede un volto, il suo volto. E le mani, le sue mani. E il sangue, quello che ha perso.
L'impugnatura di un pugnale sporge dal suo petto.
Urla, ma nessuno lo sente. Nessuno può, eccetto l'uomo col paltò bianco.
Lui sente la disperazione delle anime confuse.
Il trauma, la morte violenta, un distacco troppo repentino dal corpo.
Un'anima inconsapevole di ciò che è. Destinata a vagare, se non ci fosse lui.
Ora può raggiungere la sua destinazione, quale essa sia.
A lui non importa, si limita a compiere il suo dovere
Riporta l'ordine.
Vaga nella notte, avvolto nel suo paltò bianco.
In attesa di cogliere un richiamo di morte.
Occhio umano non può scorgerlo, orecchio non può udirlo.
Se vedete l'uomo col paltò bianco, vi resta una sola cosa da fare.
Pregate per la vostra anima.


28 gennaio 2012

Lascia la scia (di Valentina Luberto e Pasquale Chirchiglia)


Immagine di Joan Fontcuberta


Non pensavo fosse così facile conquistarlo. Era bellissimo. L'avevo visto alla fermata del tram nel suo originalissimo cappottino liso, color grigiotopotriste. Ho subito pensato: è lui, lo voglio!

Dovevo capirlo che era così dal primo momento, quando le ho chiesto l'ora e mi ha risposto: "Casa mia o casa tua?". Lei, avvolta nella tenda della nonna, sensuale quanto un cammello asmatico, con la carnagione dello stesso colore.

Chiedermi l'ora, che escamotage antiquato per invitarmi ad  uscire. Voleva, chiaramente, celarmi l'impetuoso desiderio che animava il suo cuore (e non solo), alla sola vista della mia conturbante figura, stretta nella mia nuova mantella. Com'era carino, però! La sua timidezza, quasi mi commuoveva, inghiottita in quel grigiotopotriste, me lo faceva apparire ancora più sexy. L'orologio con me proprio non l'avevo, non avevo neppure troppo tempo. La pausa dal lavoro durava solo due ore e le focose intenzioni di quel bel tipino (o topino?) erano chiare. Ci sono momenti in cui una donna deve abbandonare ogni esitazione, andare dritta alla meta. Chiedergli quale casa preferisse, per iniziare a farci le fusa, era il minimo. Farci le fusa, forse proprio no, a lui che era un topino non poteva andare bene, ma il linguaggio dell’amore è universale. Mi avrebbe capita, in qualche modo.
 
Colpa mia, così imparo a comprarmi un orologio. Al pensiero di andare a casa scortato da quel cetaceo bipede dall'alito fognante, mi sentivo abbastanza a disagio. Quando, con una vocina stridula quanto le unghie sulla lavagna, mi ha risposto che erano le 7 e mezza, i peli del naso sono planati per terra piangendo.
Poi ho provato a divincolarmi, ma lei, con una certa delicatezza, mi ha issato sul tram, rischiando di strangolarmi. Quando ha alzato il braccio per aggrapparsi alla sbarra, una treccia lunga mezzo metro è scivolata dalla tenda. Una decina di mosche vi erano appese boccheggianti.
 
L’ho capito da subito quanto mi desiderasse. Mi è bastato comunicargli l’ora, per avvertire che la brama di possedermi si fosse già impossessata di lui. Al suono della mia voce suadente, il suo viso ha tradito la più chiara delle emozioni del desiderio. D’un tratto ha volto lo sguardo in un’altra direzione, evidente segno di imbarazzo, gli occhi son strabuzzati e la bocca ha emesso un sibilo incomprensibile. Chiara difficoltà nell’esprimere, con le sole parole, l’impazienza d’esplorare il mio morbido corpo in cui perdersi.
Non ha perso tempo a seguirmi sul tram e lì  ho notato, con molto stupore, quanto apprezzasse la mia ritrosia all’uso della ceretta. Solo un uomo d’altri tempi, solo un vero maschio può essere capace di apprezzare la natura selvaggia di una, altrettanto vera, donna. È stato in quel momento che ho abbandonato ogni inibizione e gli ho detto: “Topino, il destino ci è amico e anche la mia coinquilina che, al nostro arrivo, leverà le tende. Abbandona ogni imbarazzo e stringimi forte, fammi sentire il tuo calore, tra i gelidi spintoni di questi sconosciuti. Lo vedi, non fanno che tentare di abbordarmi, facendo finta di perdere l’equilibrio, ma io voglio solo te. Solo te, per sempre!”.

Io mi sono girato, studiando una via di fuga, ma un "click" sinistro mi ha allarmato. I nostri polsi erano uniti da un paio di manette. "Ne porto sempre un paio nella borsetta, non si sa mai", mi ha detto. Intanto accanto a noi la gente barcollava. Ben presto si era sparsa la voce di test con le armi batteriologiche. I suoi miasmi facevano appassire anche i fiori di plastica. Lasciandoci alle spalle una scia di sofferenza e disgusto, siamo scesi dal tram. Io già mi immaginavo suo prigioniero a vita, il suo corpo soffocarmi quotidianamente. Se avessi avuto una capsula di cianuro, l'avrei inghiottita all'istante, risparmiandomi inutili sofferenze.

Al mio: “… per sempre!”, la timidezza del mio topino era nuovamente balzata fuori. Non faceva che fuggire il mio sguardo penetrante. Si guardava continuamente intorno, a me non servivano altri indizi per capire. Era chiaro, non riusciva ad aspettare. Il tragitto verso casa gli sembrava ancora troppo lungo, voleva godere delle mie forme avvolgenti il prima possibile. Questa sua impazienza mi piaceva, stuzzicava la mia fantasia. Il mio intento era che mi desiderasse sempre più, così c’era una sola soluzione: bloccargli le mani, impedendogli di avere accesso al mio appetitoso corpo incandescente. Le manette erano la soluzione più appropriata: eccitanti, sfacciate, romantica metafora del nostro indissolubile legame d’acciaio. Gli altri passeggeri erano lividi dall’invidia, il nostro focoso amore colorava i loro visi di viola, verde acido, giallo… sembrava quasi avessero ingoiato una sostanza letale. Tutto questo non faceva che darmi forza: non eravamo solo io e il mio topino a sentire il nostro grande amore, ma il mondo intero! La nostra romantica fuga in tram, ormai, era finita. La distanza tra il marciapiede e la nostra alcova brevissima, ma prima, avevo bisogno di acquistare qualcosa di stuzzicante, per ravvivare i nostri giochi d’amore. Non potevo che scegliere un classico: gorgonzola da spalmare qua e là. Del resto, cosa meglio del cibo per stuzzicare la fantasia erotica!

Mentre scendevamo dal tram sono caduto, spalmandomi per terra. Lei non se ne è accorta, con la sua pachidermica forza mi ha trascinato fino al negozio di alimentari. Quando mi sono rimesso in piedi avevo gli zigomi piallati piallati, svariati denti ballavano in equilibrio instabile nelle gengive. Sembravano promettermi una vita di omogeneizzati e pastine. L'ho vista acquistare un chilo di gorgonzola. "Per i nostri giochini", mi ha detto, leccandomi la guancia con la sua lingua rasposa. Una signora che assisteva alla scena, ha estratto il crocifisso e lo ha messo davanti al volto, l'ho sentita pronunciare parole in latino. Credo stesse tentando un esorcismo. Purtroppo non è servito a niente, dopo aver pagato mi ha caricato sul carrello e si è messa a correre. "Per fare prima, sono impaziente di averti", mi ha detto. Quando siamo arrivati a casa, mi ha tolto le manette, scaraventandomi sul letto. Una bambola di pezza in mezzo alla puzza, circondato da tranci di pizza e in balìa di una pazza.

L’idea del gorgonzola gli era piaciuta sin dal negozio di alimentari, nonostante quella signora bigotta non riuscisse a sostenere le nostre effusioni d’amore. Tirar fuori un crocifisso, solo per una leccatina sulla guancia. Che diamine, neppure nel Medioevo! E poi, l’Amore è un sentimento universale, anche Gesù sarebbe stato contento! Quella bigotta poteva anche andare a farsi friggere, io e il mio topino avevamo ben altri programmi, per il menù del giorno: i nostri corpi golosi resi ancora più appetitosi dal gorgonzola. Finalmente a casa, il letto gridava e gridavo anch’io, si sa che queste cose piacciono agli uomini. Come la più esperta delle cuoche, ho scartato prima lui, liberandolo di quel cappottino grigiotopotriste, poi ho scartato me, esponendo le mie grazie abbondanti al suo insaziabile appetito. Infine, è arrivato il turno del gorgonzola. L’eccitazione era ormai alle stelle, quelle che avremmo visto insieme, nella realizzazione del nostro indimenticabile e goloso amplesso.

L'ho vista arrivare, nelle sue strabordanti forme, avvicinarsi sbavante a me. Ho chiuso gli occhi, cercavo di immaginare che sopra di me ci fosse una pin up, e non quella megattera. Vana speranza, c'erano le mie vertebre scricchiolanti a ricordarmelo. Sentivo il suo corpo fragrante di gorgonzola strusciarsi sopra di me, su e giù e su e giù, finché non ce l'ho fatta più. Ho vomitato e sono svenuto.



L’amplesso più bello della mia vita: l’ho sfinito. Lo sapevo da quando l’ho visto alla fermata del tram, che era quello giusto per me. Mi pare di sentire le mie forme più sode, dopo tutto questo movimento, oserei quasi dire coriacee, proprio come la mia ostinazione nel realizzare il mio desiderio d’amore. Amore, sì. Al bando le due ore di pausa dal lavoro. Che vadano tutti al diavolo! Voglio vivere tutta la vita con lui, non voglio più abbandonare questo letto. Ora è sfinito, ma attenderò che si risvegli, per ricominciare la nostra danza d’amore al gorgonzola. Lo amo e lui ama me. Lo so, lo vedo da come mi guarda mentre facciamo l’amore, dal modo in cui si abbandona alle mie voglie, da quanto gli piaccia assaporarmi, cosparsa di gorgonzola. Sarò il suo cibo quotidiano, il sapore di cui non potrà più fare a meno.

Riposa topino mio, ancora qualche minuto e ricominceremo a banchettare.

La nottata più brutta della mia vita. Come essere centrifugato in una discarica. Mi sveglio con un peso sullo stomaco e una sensazione diffusa di viscidume, e la guardo, indeciso sul da farsi. Una linea sottile, tra sparire e spararle. O anche cucinarla. Potrei venderla a un ristorante. Io pensavo fosse una balena, mi sbagliavo. Guardo le sue antenne impertinenti allungarsi sul mio viso, mentre il suo corpo lascia la scia su di me. Dovevo capirlo dai suoi modi, che era una lumacona. E dire che a me le lumache non sono mai piaciute.


Nota degli autori:

Ringraziamo Sario Laveneziana per aver avuto l'assurda idea di proporci di scrivere un racconto sulla foto inserita nel post, soprattutto perché siamo soddisfattissimi dell'ancora più assurdo risultato finale :)
Questo racconto è stato scritto in tempo reale e senza decidere nemmeno la trama, semplicemente seguendosi a vicenda.
Se vi state chiedendo come ci possa essere venuta questa idea, alla vista di quella inquietante foto, vi rispondiamo che non lo sappiamo, ma che qualche domanda ce la siam posta anche noi :)
Speriamo vi siate divertiti a leggere questo racconto, almeno quanto noi a scriverlo e vi assicuriamo che le risate sono state davvero tante!
 

Un saluto,

Valentina e Pasquale

25 gennaio 2012

glu

Joan Mirò – Ubu Roi – 1966 – Il riposo di Padre Ubu
Ché non lo so cosa c’è o cosa non c’è. Non più. Più o meno, ho sempre avuto la certezza che le cose sono, nella misura in cui un pesce rosso in una bolla sia ascoltato da una stella, caduta nel tratto di mare sbagliato. Né più né meno, a meno che… A meno che non se ne abbia abbastanza di tutte quelle bollicine e ci si dia alla macchia, il più in fretta possibile. Sempre che la macchia non persista o ci rapisca a tal punto da fiondarci, insieme a lei, in una pozza di colore. Tira, tira su quel secchio! L’hai persa, di nuovo. Non vedi che non c’è anche se c’è? La verità è che la luna riesce sempre a farla franca. “Francamente me ne infischio”, ha detto qualcuno. L’ha detto tutto d’un fiato, lo stesso che trattengo io. Nel tempo d’un salto nella pozza in fondo al pozzo. Ché non lo so cosa c’è o cosa non c’è. So che c’è il mare, oggi c’è il mare.


12 gennaio 2012

solo per distrazione


Black and white, Georgia O' Keeffe

E penso che uno strappo non accada mai per caso. Penso. Guardo la trama lacerata e scorgo, non so cosa. Guardo. Oltre il groviglio dei pensieri, oltre le mani che scostano ogni possibile. Oltre. Corre, corre, corre il filo sul filo di. E cade, qualche volta cade, ma solo per rialzarsi. Solo che io. Solo che tu. Tu che ti aspetti che questo pensiero continuerà come sempre. L’ultima parola che apre un mondo alla prima. La prima che non lascia andare l’ultima e la lega a sé. Una parola, ché spesso non si ha che una parola per tenere o lasciare andare. Invece no. Non aspettarmi, io sono quella che sbaglia gli appuntamenti. Non con intenzione, solo per distrazione. Sono lì che appunto tutto su un foglio sottile e solo. È per cercare d’ingannare il quattro, ma il quattro non lo inganni. Mai. Così, ancora una volta, il foglio volerà via. E capovolgerò tutto ché mi piace stare a testa in giù. Scriverò questo pensiero sghembo su una musica che mi hai regalato e nemmeno lo sai. La terrò per me. Come tutti i pensieri slegati che non ho mai scritto. Come tutti quelli che sanno che. E l’appuntamento ci sarà, io ci sarò. Nell’ora e nel tempo che ricorderò d’aver appuntato. Non aspettarmi. Non puoi. Sono sempre quella che sbaglia gli appuntamenti. Non con intenzione, solo per distrazione. Sono quella che usa una musica diversa da quella che ascolta mentre scrive. Sono quella che ama i colori, ma non riesce a lasciar andare il bianco e il nero. Bianco e nero. E in mezzo, non so.