28 marzo 2012

Diversi cerchi alla fragola


Diversi cerchi, Kandinskij

? È così che inizia questo pensiero. Inizia o è sempre stato (...) Non lo so.  C’è una curva che tiene al sicuro qualcosa, l’avvolge con un solo braccio, ché gli manca l’altro, ma fa finta di no, mentre nasconde un segreto in un punto. Cosa c’è? Non lo so. Non – lo- so, appunto. E mentre i puntini sospensivi smettono di chiacchierare, rubano l’uncino alle domande sospese e lo legano a una stanghetta. Solo per non lasciarle andar via, solo perché per fare l’uno servono una curva e una stanghetta. Il sei sa che è il suo momento, si arrotola e trattiene una linguaccia, deve: lui è un numero serio! Il due non c’è o ce n’è troppo. E ci sono io, un tre che non ci sta a chiudere i cerchi. Ché a me i cerchi fanno girare la testa. Tutti. Non proprio tutti. Tutti meno quelli di Kandiskij che mi ricordo che sanno di fragola ogni volta che inciampo in un semino.


 


Ah, poi c'è anche questa canzone. Da dove salta fuori? Non lo so. Io non so mai niente.


27 marzo 2012

Ruzzoloni e punti di svista






«Non capisco perché ci abbia messo così tante scale. Ok, la vita è complicata, le difficoltà innumerevoli, gli obiettivi difficili da raggiungere, ma tutte quelle scale. Che titolo, poi: Relatività. Punti di vista o di svista? La verità è che quando meno te l’aspetti ruzzola tutto e tu che fai? Scegli il bianco o il nero? Bianco, io scelgo sempre il bianco! Non capirò mai Escher, avrò anche una fantasia sfrenata, ma proprio non lo capisco. Tutte quelle scale... ah, io il bianco e il nero li uso di sicuro in modo meno faticoso e più piacevole!».
Lucilla si è presentata così o meglio, la voce di Lucilla ha fatto irruzione nella mia estatica contemplazione dell’opera di Escher “Relatività”, riportandomi, è il caso di dirlo, giù dalle scale. Devo ammettere che c’è voluto davvero poco per passare dal bianco e nero di Escher al rosso carota dei capelli di Lucilla. Come essere indifferenti a una nuvola rossa così voluttuosa, illuminata da due grandi occhi color muschio incastonati
in un delicato e delizioso visino da bimba ? Quell’osservazione impertinente sulle famosissime scale di Escher non poteva non incuriosirmi e invitarmi all'incontro con quella che sarebbe diventata la mia delizia del mercoledì sera.
«Mi scusi, non ho potuto fare a meno di ascoltare la sua osservazione su Escher, mi chiedevo in che modo lei usi il bianco e il nero.»
Lucilla si voltò con fare indagatore, pareva si stesse chiedendo chi avesse invaso il suo pensiero ad alta voce e, dopo aver esaminato superficialmente l’ inconsapevole disturbatore, rispose con decisione: «Scacchi!»
«Scacchi?» riuscii a ribattere con tono incerto.
«Conosce un modo migliore e più piacevole per usare il bianco e nero? Io no, ci ho provato, ma niente: il piacere che mi danno combinandosi negli scacchi lo trovo ineguagliabile.»
«Non ci avevo mai pensato… »
«Non mi stupisce, nessuno ci pensa, o meglio, nessuno gioca a scacchi come gioco io e nessuno dedica agli scacchi un giorno, sempre lo stesso, come faccio io. Mercoledì né un giorno in più né uno in meno!»
«Mercoledì? Perché proprio il mercoledì?»
«È per non aspettare troppo, mercoledì è a metà. Beh, non proprio a metà, ma quasi. Il giovedì lo trovo noioso, il martedì è troppo vicino al lunedì, insomma il mercoledì è quello giusto.»
Poco tempo dopo avrei compreso quel suo discorso tanto strampalato quanto attraente e avrei visto Lucilla aspettare con impazienza ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera, appena dopo la fine della partita. Avrei capito anche perché lo considerasse il suo piccolo momento di piacere e, forse avrei anche carpito qualcosa in più su quegli occhi verde muschio che mi si erano incollati addosso dal momento in cui ero caduto giù dalle scale di Escher.
«Non sono molto bravo con gli scacchi, lo sono più con le scale, ma se volesse insegnarmi le sarei davvero grato.»
«Dovrei rifletterci, così, su due piedi, non so nemmeno come si chiama, ma, a pensarci bene, non sa nemmeno come mi chiami io, quindi siamo pari e direi che: sì, potrei insegnarle!»
Il suo modo di fare e quei piccoli ragionamenti di cui non riuscivo ad afferrare la logica erano per me un invito sempre più irresistibile. Desideravo che quel ruzzolone fortuito continuasse sull’affascinante pianura bicolore, speravo che avvicinarmi a Lucilla mi avrebbe potuto dare accesso non solo al gioco degli scacchi, ma a quel mondo che non vedevo l’ora di visitare.
«Le voglio dare un vantaggio. Guido, mi chiamo così e sono un critico d’arte. Adesso sa una cosa in più su di me.»
«Interessante, così lei se ne intende di tutte queste scale, di quello che Escher voglia dire, ammesso che quello che lei sa sia davvero quello che pensava Escher. Del resto, chi può sapere cosa viva nel mondo silenzioso di cui noi, di volta in volta, decidiamo cosa svelare? Guido, nome interessante e, mi dica, è sempre lei a condurre nella vita o lascia che la conducano? Non trovi banale la domanda, ma credo che niente nella vita ci capiti a caso, neppure un nome e il suo potrebbe essere una sorta di messaggio, ci ha mai pensato?»
No, nemmeno a questa cosa avevo mai pensato, come a tutte quelle cose che pochi minuti trascorsi con quel fortuito ruzzolone mi sembrava di non aver mai guardato, almeno non con quegli occhi.
«Condurre? Credo di non averci mai pensato… »
Ecco l’unica cosa che mi venne in mente di dire, mentre i miei pensieri correvano al mercoledì, forse, più veloci di quelli di Lucilla che sembrava vivere solo per quel giorno.
«Ci pensi, oggi è venerdì, ha un po’ di tempo fino a mercoledì, vedrà, basterà iniziare a giocare a scacchi e non vorrà più perdere un mercoledì. Sono proprio curiosa di vedere come se la cava, la aspetterò a casa mia, in via Bonaventura 33, alle 21. Mi raccomando, che siano le 21. Lucilla, io mi chiamo così».
Lucilla e il mio primo mercoledì con lei non potevano che diventare la mia ossessione di quella settimana. Avevo ripensato alle sue parole: “È per non aspettare troppo, mercoledì è a metà. Be’, non proprio a metà, ma quasi”. A me sembrava non arrivasse mai, ma alla fine era arrivato puntuale come ogni settimana. Alle 21 meno 3 minuti ero davanti casa sua e, alle 21 in punto, il
mio dito premeva ansioso il campanello.
«Puntualissimo! Mi segua, giocheremo in una stanza che uso solo per il mercoledì», questo il suo benvenuto. Era ancora più bella di quando l’avessi lasciata, i capelli le incorniciavano quel piccolo giaciglio niveo per quegli occhi di muschio che non riuscivo proprio a non guardare.
«Allora, Guido, ci ha pensato? Conduce sempre lei?»
«No, non sempre, stavolta mi affido completamente a lei, credo conosca meglio di me le regole del gioco». Intanto la porta della stanza del mercoledì, come l’aveva definita Lucilla, era aperta. Una stanza bianca, due cuscini e una scacchiera, nient’altro.
«Si sieda, la prego, si metta a suo agio».
Lucilla, era già a terra, gambe incrociate e sorriso luminoso. Io ero rimasto lì, cercavo di capire cosa trovasse di così speciale in quella stanza bianca abitata solo da quei cuscini e la scacchiera.
«Guardi che se è vero che ognuno di noi sceglie cosa rivelare del proprio mondo silenzioso, è anche vero che qualche volta si riesce a leggere nel pensiero. Sieda e scoprirà cosa ci trovo di così bello in questa stanza bianca quasi vuota.»
Mi aveva scoperto! Che riuscisse sul serio al leggere nel pensiero? Quasi speravo potesse, quasi volevo sapesse quanto avevo atteso quel giorno e come fosse incomprensibile per me desiderare tanto una partita a scacchi con una sconosciuta, io, che a scacchi nemmeno sapevo giocare.
«Eccomi, sono pronto ad ascoltare le regole.»
«Regole? Non ce ne sono, semplice! L’unica regola è che io prendo sempre i bianchi!»
E, mentre lo diceva, accarezzava i suoi pedoni bianchi come non potessero essere altro che una piccola parte di lei.
«Io credevo… »
«È questo il punto, in questa stanza non esiste niente che possa essere logicamente spiegato, qui io e lei siamo soltanto due cantastorie. Gli scacchi interpretano quello che noi vogliamo raccontare, così le torri sono torri costiere, oppure fari che illuminano il cammino dei fanti alla ricerca di
regine perdute, i cavalli corrono liberi sul mare o tra i boschi e i sovrani decidono le sorti dei loro sudditi. Io e lei saremo l’anima di questa scacchiera che racconterà di volta in volta una storia diversa, una storia dove il bianco può diventare nero e il nero bianco. Una storia che sarà sempre e
solo la nostra storia, sempre diversa, in cui noi stessi saremo noi e, al contempo, distanti da noi. Tutto si concluderà alle 24 né minuto più né minuto meno, a quel punto la porta si aprirà, lei andrà via e non ci vedremo né sentiremo fino al mercoledì successivo. Crede di voler iniziare a giocare?
Glielo chiedo perché c’è un motivo per cui non ho un compagno di gioco fisso. Loro iniziano, credono di potercela fare, di riuscire ad abbandonare la logica, a vivere il mercoledì come un gioco, ma arriva sempre il momento in cui vogliono che il mercoledì sia accompagnato da tutti gli altri giorni della settimana. A quel punto, devo ricordar loro che ho scelto il mercoledì, proprio
perché è a metà e che sarà sempre l’unico giorno in cui il bianco e il nero si incontreranno».
Ammetto che la risposta non sia stata semplice come si possa pensare, Lucilla sembrava riuscire ad abbandonare ogni logica al varco della soglia di quella stanza bianca, sembrava sapere che non avrebbe mai avuto bisogno di più che un mercoledì. Lei, ma io? A me sarebbe sempre bastato? La voglia di scoprire il suo mondo era più forte delle esitazioni che mi portavano ad abbandonare il campo da gioco, così, risposi con un: «Muova lei, ha i bianchi, la prima mossa spetta a lei!»
A quel mercoledì ne son seguiti tanti altri, quel freddo modo di colloquiare si era sciolto in un linguaggio sempre più complice e confidenziale, ci davamo del “tu” usando un piglio formale solo quando la nostra storia lo richiedeva. Speravo non sarebbe giunto quel momento, quello dell’abbandono del campo da gioco, ma, inesorabile, arrivò.
Lucilla non la vedo più da un anno, da quel mercoledì in cui le ho chiesto di poter restare e lei mi ha risposto :”Mancano tre minuti alle 24, ti avevo avvertito, questa richiesta la considero un addio”.
Così è stato, un addio, silenzioso ché tanto sapevo Lucilla leggesse nel pensiero, che oltre a non poter mai scegliere i bianchi succedeva che non potessi più nasconderle niente.
Anche oggi è mercoledì, inauguro una mostra su Escher, ho richiesto ci fosse “Relatività”, del resto, quelle scale in bianco e nero mi ricordano il ruzzolone più bello della mia vita.
Mi dirigo verso il dipinto e mi soffermo .
«È inutile, queste scale non riesco proprio a capirle, continuo ad usare in modo più piacevole e divertente il bianco e il nero. Mio caro Escher, cosa volevi dire?»
Mi volto ed incontro quegli occhi color muschio che ancora, nonostante la distanza, sento incollati addosso:
«Lucilla, credevo… »
«Ti avevo detto che la regola non era che una: io prendo sempre i bianchi e, forse, non vale neppure più quella. Conduci tu, adesso!»


16 marzo 2012

La fiorentina dal riso al sangue



Questa è la storia di una bella fiorentina.
Alta, colorita ma non troppo, un po’ robusta e allegra. Forse un po’ troppo allegra, ma, come si dice: “Il riso fa buon sangue”. Del riso, però, parliamo un’altra volta, al bando i primi e ritorniamo ai secondi!
No, non è una gara, non c’è chi arrivi primo o secondo e, no, il terzo classificato non vince la medaglia.
Silenzio, altrimenti mi confondo.
Torniamo alla bella fiorentina, un po’ troppo allegra.
Non capite male, non è che fosse poco seria, ma teneva al suo sangue, voleva fosse buono e, per mantenerlo così, non faceva che ridere. Per la sua vivacità e il suo aspetto appetitoso, aveva tanti pretendenti tra cui non riusciva a scegliere. E scegliere era davvero difficile perché, ognuno di loro, aveva un modo di corteggiare, diversamente accattivante.
Il tempo, però, stringeva, la fiorentina s’inteneriva, nonostante la fiamma che l’ardeva, e mancava poco che fosse completamente cotta, ma di chi?
Brunello di Montalcino, dalla sua, aveva la sua aria d’annata, quella cupezza ma non troppo nel nome, che lo velava appena di mistero, e una certa vivacità nell’approccio che sorprendeva. Amava corteggiare la fiorentina senza troppe parole, puntando sulla simpatia brillante e contagiosa. Lei apprezzava, metro di giudizio era il suo riso e, quando c’era Brunello, era più vivo del solito. Aveva buone speranze, ma non abbastanza per star tranquillo perché non era l’unico a divertirla.
Sempre dalla Toscana, ma da Montepulciano, c’era il Nobile. Lo chiamavano tutti così per il fatto che da sempre frequentasse le tavole dei nobili e fosse tenuto in gran considerazione per la sua sobria eleganza e il suo equilibrio. Nel corteggiamento, puntava sullo sfoggio delle sue importanti conoscenze e catturava l’attenzione con curiosi aneddoti che si sarebbero verificati, di volta in volta, presso le nobili tavolate a cui era sempre invitato. La fiorentina rideva di gran gusto e, anche in questo caso, sembrava rapita dal suo corteggiatore, ma non completamente.
Come prevedibile, tra il Brunello e il Nobile, la contesa era aspra e violenta. Più volte i due avevano rischiato di oltrepassare la misura tingendo, di color rubino, il luogo del loro scontro, ma la bella fiorentina, sollecitando allegria con il suo riso spontaneo, li aveva distratti, scongiurando il peggio.
Rideva di gusto, non perdeva neppure una goccia d’ilarità, ma continuava a non decidersi.
Un giorno, colse tutti di sorpresa.
Durante una delle solite allegre tavolate, annunciò che aveva scelto a chi dei due contendenti avrebbe dichiarato il suo “sì”.
La sala mutò facendosi silenziosa al pari di una chiesa, tanto che il Vin Santo, si sentì quasi in diritto di prender la parola, ma era troppo stanco per farlo e lasciò parlare la bella fiorentina.
Non fu lei a rompere il silenzio, ma il Nebbiolo.
Nebbiolo era arrivato da poco e tutti avevano notato fosse interessato alla bella fiorentina. Molti, per questo motivo, lo guardavano sottecchi e ad aggravare la situazione c’era la sua provenienza geografica.
Veniva da Alba, non c’era nulla di male, certo, ma inevitabilmente, entrava in competizione con i pretendenti del luogo, sicuramente contrariati all’idea che uno straniero potesse avere la meglio nella conquista.
Fece il suo ingresso alla tavolata, muovendosi a tentoni, ma sempre con una certa eleganza.
In un sorso mandò giù tutte le pietanze e, senza rendersene conto, rovesciò, con uno spintone distratto, Brunello e il Nobile per giungere con una scivolata, al cospetto della bella fiorentina.
La sala, dopo quel gran trambusto, si vestì nuovamente di silenzio.
Fu la bella fiorentina scalfirlo affermando, con la risata più sonora di cui fosse capace, che la sua scelta, era fatta.
Nebbiolo, confuso e annebbiato, le avrebbe garantito tanti altri ruzzoloni come quello. Avrebbe, così, riso continuamente e si sa che “Il riso fa buon sangue” e a lei il sangue donava, nonostante fosse tanto tenera.


La cosa




La prima volta che l’ho incontrato avevo bevuto parecchio.
Da quando è successa la Cosa bevo spesso parecchio.
È apparso senza che me ne accorgessi, forse ero troppo bevuto per accorgermene. Seduto sul divano del mio soggiorno, come fosse la cosa più naturale di questo mondo, come se fosse sempre stato lì.
«Ciao David! David Burns, giusto?», ha detto sogghignando.
Chiunque fosse non mi faceva paura, niente poteva farmi paura dopo la Cosa, a meno che non sapesse.
La Cosa doveva rimanere segreta, nessuno doveva sapere, nessuno eccetto me.
«Chi sei?»
«Sono colui che sa.»
«Di che parli?»
«Della Cosa.»
Non mi ha lasciato il tempo di reagire che è scomparso. Nessuna traccia di lui se non un taglio sul mio divano, profondo come una ferita. Ho pensato che dovessi andarci piano con l’alcol e che scherzi come quello, prima o poi, mi avrebbero fatto crepare.
A pensarci bene, che importava: se fossi crepato la Cosa sarebbe venuta all’inferno con me.
Sarei stato di nuovo libero, all’inferno, ma libero.
Un’allucinazione, non poteva essere altro: l’uomo con gli occhi bui non esisteva.
Questione chiusa.
Ho smesso di bere per un po’, sono anche stato da uno strizzacervelli. Ha avuto poca fortuna con me, sapevo cosa scartavetrava il mio cervello ed era impossibile lui lo scoprisse, non gli avrei rivelato della Cosa nemmeno sotto tortura. Parlargli dell’uomo con gli occhi bui era fuori discussione: troppo pericoloso, la Cosa sarebbe potuta saltar fuori .
«Signor Burns, sono lieto di comunicarle che la terapia è giunta a conclusione con successo. Ha attraversato un forte periodo di stress che le ha causato un grave esaurimento nervoso che, però, grazie al suo impegno e al mio aiuto è perfettamente stato risolto. Ritengo possiamo sospendere le sedute, ovviamente, resto a sua completa disposizione per qualsiasi problema».
Bravo il mio strizzacervelli, te la sei bevuta tutta, fino all’ultimo sorso. Ventidue sedute da settanta dollari l’una, per consolidare la tua fiducia idiota nelle tue dubbie capacità terapeutiche e un mucchio di banalità che avrebbe anche potuto dirmi il telefono amico.
Ho mollato per sempre lo strizzacervelli, la bottiglia sapeva fare di meglio.
Mi sono buttato nel lavoro, devono pur servire a qualcosa quelle otto ore della tua vita, qualche giorno sono diventate anche sedici, ma che importava, io non dovevo pensare, dovevo dimenticare: la Cosa, l’uomo con gli occhi bui e anche me stesso.
Quando non penso, tutto fila liscio, quasi quanto lo scotch lungo la gola, e non brucia nemmeno più per quanto sono abituato.
Avevo anche una donna, Jenna.
La donna perfetta: bellissima fuori e predisposta all’eco dentro.
Tanto sesso e nessuna domanda, il massimo dell’impegno nella conversazione prevedeva un confronto sui complementi d’arredo più adatti a ingombrare  casa mia o le ultime tendenze sui colori della tappezzeria per i divani.
«Dovremmo sostituire il divano, David. Guarda, ha un taglio sul secondo cuscino a sinistra. È gravissimo! Corro a chiamare il miglior tappezziere della città, dovrei aver lasciato il numero in borsa, al piano di sopra. Aspettami e prepara un drink, non cederemo certo il divano senza averci giocato un po’…».
E mentre mi catapultava, inconsapevole, in un inferno che non conosceva, la stoffa che ricopriva il suo corpo scivolava lungo la ringhiera della scala che la inghiottiva nella penombra.
«David, ti trovo in forma. Bella la tua nuova amichetta, posso giocarci un po’ anch’io?»
«Ancora tu!»
«Credevi mi fossi dimenticato di te? Era troppo divertente assistere alle tue sedute per interrompere lo spettacolo. Simpatico il tuo analista, ingenuo, ma simpatico.»
«Sparisci, non abbiamo nulla da spartire noi due.»
«Dovresti avere più rispetto per me, David. Del resto, condividiamo un segreto.»
«Io non ho segreti!»
«E la Cosa? Io so tutto. Io sono colui che sa.»
«Va’ via o ti ammazzo!»
«Credi di poterlo fare?”
«Sono già all’inferno, non è una cella che mi spaventa.»
«Pensi sia davvero una cella il peggio che ti aspetterebbe? Povero David, godi di quel poco che hai finché puoi, anche della tua amichetta al piano di sopra, sembra appetitosa.»
«Cosa …»
Scomparso, sparito, dissolto. Ero di nuovo solo e dell’uomo con gli occhi bui nessuna traccia.
Non poteva sapere della Cosa, ero solo, nessuno poteva avermi visto. Nessun rumore, nessuna prova, nessuna traccia, ne ero sicuro. Nessuno, solo io. Solo io e la Cosa. Quella dannata Cosa!
«Orsacchiotto, sono pronta. Dai giochiamo. Sono il tuo divano, dovresti cambiarmi la tappezzeria. Toglimi quella che resta e baciami il taglio sul fianco sinistro. Guarirà, vero tesoruccio?»
Impossibile, non era possibile che stesse succedendo, Jenna sanguinava sul serio da quel taglio disegnato con una linea di rossetto.
Il suo riso si era trasformato in una smorfia di dolore, non riusciva neppure a gridare. In poco tempo giaceva sul parquet, esanime e con gli occhi sbarrati.
«Te l’avevo detto che avrei voluto giocare anch’io con voi due, David.»
«Cosa vuoi? Dimmi cosa cerchi da me.»
«A tempo debito, questo è solo una piccola dimostrazione di quanto il tuo concetto d’inferno possa arricchirsi. Non porre limiti alla fantasia, David.»
«Smettila di pronunciare il mio nome. Parla chiaro!»
Svanito nel nulla, ancora.
Jenna, qualche istante dopo, si era riavuta, come ai posteri di una sbronza. Rideva e passava il dito sulla traccia di rossetto sul fianco, sembrava ancora ubriaca ed era come se tutto quello che era appena accaduto, non l’avesse mai vissuto.
Stavo impazzendo, doveva essere questa l’unica spiegazione, ero sull’orlo della follia e a breve non avrei più avuto nessun contatto con me stesso.
Se la Cosa non fosse mai esistita?
Se l’uomo con gli occhi bui fosse solo una mia creazione?
Se io stesso non fossi che illusione?

No, la Cosa esisteva, io c’ero. Non volevo succedesse, quella sera ero capitato lì per caso, non mi aveva invitato nessuno né volevo essere lì. Dovevo dare solo il passaggio a quella bionda e andar via, ma aveva argomenti troppo convincenti per farmi esitare a restare. Una festa come tante: musica, belle ragazze, alcol e qualche aiutino per fare una puntata in paradiso e tornare indietro, solo per il gusto di ritornarci. La bionda in pochi istanti era sparita, poco male, c’era da bere e la giornata era stata pesante per prevedere un dessert in compagnia. Serata perfetta, se non fosse per quell’istante. Cercavo un posto tranquillo, lontano dalla musica, dalla confusione, avevo bisogno di riprendermi. Mi sono allontanato un po’ ed è successo. Credevo fosse colpa dell’alcol, della stanchezza, qualunque cosa, ma non avrei mai potuto immaginare che, quello che vedevo, stesse realmente avvenendo. In un angolo della villa c’era un punto che emanava una strana luce violacea, non sono riuscito a frenare la curiosità e mi sono avvicinato, barcollante. Un uomo dall’aspetto mostruoso stava risucchiando qualcosa dalla bocca di una ragazza stesa al suolo. Alla fine dell’operazione, la ragazza era scomparsa e l’uomo aveva mutato aspetto diventando giovane e prestante, ero distante, ma il mutamento era chiaro.
Sono corso via, nessuno poteva avermi visto, ero solo in quel punto e tutti erano impegnati in attività molto più piacevoli che seguire mie.
Avevo assistito qualcosa di assurdo, inconcepibile e mostruoso; mi ero chiesto innumerevoli volte se fosse stato solo un sogno, avevo anche provato a ritornare alla villa, ma a quell’indirizzo non c’era che una distesa di erbaccia incolta.
Un incubo, forse era stato solo quello, dovevo dimenticare e stava succedendo, quando l’uomo dagli occhi bui ha iniziato a visitarmi.


Ora sono qui.
Un mio amico mi ha portato a questa festa dove non conosco nessuno, il tempo d’entrare ed è scomparso al piano di sopra con una ragazza. Mi ha detto che mi avrebbe fatto bene, che mi sarei distratto.
C’è da bere, ottimo: l’alcol aiuta a socializzare e dimenticare.
Prendo due scotch, uno è poco, tre sono troppi, due è la quantità giusta, almeno a inizio serata.
La musica mi piace, se non fossi un pezzo di legno ballerei.
Mi guardo intorno, un occhio ai nuovi arrivi.
Entra un uomo, un uomo vestito di nero, il viso pallido, i capelli rosso bruciato, nessuna traccia di sopracciglia, gli occhi incavati e bui.
Si avvicina sorridendomi e dice che ci conosciamo.
Non ci conosciamo, ne sono sicuro.
Non l’ho mai visto.
Gli chiedo dove l’avrei visto e dice di avermi incontrato a casa mia.
È impossibile, non l’ho mai visto.
Dice di essere a casa mia.
Avrò ripetuto mille volte la parola impossibile in questi minuti, ma anche questo è: IMPOSSIBILE!
Lui non c’è, io non l’ho mai visto.
Lui è qui con me adesso, non può essere a casa mia.
Prende il telefono, me lo porge e mi chiede di comporre il mio numero di casa.
Lo faccio, non so perché, ma lo faccio.
Mi risponde una voce: è lui!
“Dov’è il trucco?”, gli chiedo.
“Chiedimelo” mi risponde, la voce.
Glielo chiedo, gli chiedo come sia entrato a casa mia.
La voce al telefono dice che sono stato io a invitarlo.
L’uomo della festa mi dice di restituirgli il telefono, io faccio per chiudere e inizia a ridere, insieme alla voce: la risata più agghiacciante che abbia mai ascoltato.
Mi guarda con gli occhi spalancati e il ghigno beffardo, mi dice: “È stato un piacere parlare con te”.
Va via.
Io resto lì, so chi è lui. Lo conosco, anche se ho detto di no, io lo conosco.
È l’uomo con gli occhi bui ed è qui per ricordarmi della Cosa.
Non mi mollerà mai a meno che non sia io a mollare lui.
Lascio la festa, salgo in macchina e guido fino all’indirizzo della villa.
La villa c’è, di nuovo!
Entro, ritrovo la bionda dell’altra volta che mi sorride.
Vado dritto all’angolo, luce violacea, come quella sera.
Ancora lui, chinato sulla ragazza di turno, le succhia qualcosa dalla bocca, lei scompare, anche lei.
Stavolta non scappo, resto lì a guardare, voglio guardarlo in faccia, sento di non avere più nulla da perdere.
Si alza, si avvicina alla luce del lampione e ne posso distinguere i tratti del viso.
Non posso crederci, non sta realmente accadendo, è impossibile, lo dico per l’ennesima volta questa sera.
Io lo conosco, molto più che qualsiasi altro, forse non lo conosco affatto: sono io!
Mi avvicino, devo toccarlo, non ci credo, lui sorride, l’altro me sorride.
Compare l’uomo con gli occhi bui.
«Ci vediamo ancora, David.»
«Cosa significa tutto questo, chi è lui?»
«Sei tu, David, non ti riconosci?»
«Non posso essere io, io sono qui.»
«Tu credi di essere qui, ma sei lì. Il vero David non sei tu, ma lui. Tu sei soltanto una proiezione, un’illusione.»
«Non è così.»
«Povero David. David e le sue convinzioni.»
«Smettila di ripetere il mio nome, non sono convinzioni, ma dati di fatto, realtà!»
«Io stesso sono una tua illusione, mi hai creato tu. Essendo una creazione della tua mente, l’unico modo per eliminarmi sarebbe eliminare te stesso. Fallo, sopravvivresti perché tu, come me,
non esisti.»
«Pur di porre  fine a tutto questo, interromperei la mia stessa vita con le mie mani. Credi abbia paura? No che non ho paura. Morirò, ma verrai all’inferno con me!»

Da quella sera, di David Burns non si sono avute più notizie, il suo corpo non è mai stato ritrovato. In una giacca, abbandonata sul divano del suo soggiorno, un indirizzo. La polizia, in fase di ricerca, ha verificato l’indirizzo e, raggiunto il luogo, non ha trovato che una distesa deserta abitata solo da erba incolta.
Nessuno sa che fine abbia fatto. I suoi amici più cari raccontano soltanto che, da qualche tempo, fosse sfuggente e misterioso. Si diceva in giro che organizzasse feste in ville molto lussuose, feste di cui non ricordava nulla e a cui negava d’esser stato. Nessuno sapeva cosa accadesse a quelle feste e se esistessero realmente, nessuno che lo conoscesse è mai riuscito a prendervi parte. Nessuno che fosse ancora in vita per poterlo raccontare. 



Nota: Questo racconto trae ispirazione dalla scena del film "Strade perdute" di David Lynch, che propongo a seguire e che è inserita all'interno dello stesso, come citazione. Il racconto non segue in alcun modo la trama del film:




8 marzo 2012

Senza un pizzico in più o in meno


Immagine: Rodney Smith


Il giorno che sei entrato nella mia vita, io non c’ero. Ero via, non so perché o conosco così bene le ragioni di quel viaggio che ricordarle adesso non farebbe che riprendere un filo ormai spezzato. Non tutti i fili hanno la stessa resistenza, sai? Per uno di loro che si lega alle mani e non le lascia andare, ce ne sono mille che al primo soffio del vento sfuggono e volano via. Non si ritrovano più, accade. Quel giorno, ho perso il filo e ho trovato te. Non ti aspettavo, erano le cinque e non ti aspettavo. Alle cinque in punto io bevo il tè, non potevi saperlo, eppure l’hai sempre saputo. Zenzero e cannella, come mi piace di più, come sono io. Sei arrivato tra i ricami di vapore pizzicandoli, più dello zenzero, ma con dolcezza. Come sei tu, come non sapevo fossi tanto vicino a me. Mi nascondevo, non da te, ma da me, dalle mie mani che avevano perso il filo, dal timore di scoprirsi avvinte a qualcosa di nuovo che aveva lo stesso profumo di quel giorno in cui non c’ero. Zenzero e cannella, non mi hai mai chiesto perché lo preferissi, hai sempre saputo che fosse come me, ho imparato a capire quanto somigliasse a te, adesso so quanto appartenga a noi. Noi, un appuntamento che non c’era e un tè che ci aspettava. Sei entrato a piedi muti, come se avessi timore d'imprimere un suono diverso da quello dei nostri occhi. I tuoi, gli stessi di chi conosce la meraviglia, i miei che credevano d’averla persa, come ogni possibile parola. Quanto hanno detto i nostri occhi quel giorno, oltre il vapore, la paura, l’esitazione? Stavo tornando, poco alla volta. Per non lasciarti solo, per le mie mani e quel filo che le accarezzava. Accade così, le dita si muovono, danzano e incontrano qualcosa che le stringe, fino a legarle con dolcezza e decisione, e non è solo aria. Ho sempre pensato che sia nelle mani strette che si inizi a fare l’amore e quel giorno, per noi, è stata la prima volta, senza toccarci. C’ero, adesso lo so, tu l’hai sempre saputo, come quando preparo il mio tè e so che è necessario che tutto sia nella giusta misura. Zenzero e cannella, piccante e dolce, un pizzico in più o in meno e la miscela salta, il profumo svanisce e il filo vola via.
Sapevi anche questo, tu. Hai sempre saputo molto più di me, ascoltato anche quello che non riuscivo a dirti, legato alle mia dita quel filo che avevo perso. La miscela giusta, senza un pizzico in più o in meno, noi. E io, che ci ho messo quel pizzico di zenzero in più. È successo in una mattina di marzo, indecisa come la mia voglia di andar via o restare. Ho scelto di andare, non perché lo volessi, ma perché era l’unica cosa da fare, l’unico modo che avevo per non avere più paura di perdere il filo, prima che il filo abbandonasse me. Quando non ci sei  è tutto più semplice, anche preparare un tè sapendo che non arriverà nessuno a squilibrare la miscela. Zenzero e cannella, senza che faccia male, nella giusta misura, la stessa che garantisce che il filo non stringa troppo. Ma il filo c’era, c’è. Tu c’eri, ci sei. E c’ero anch’io, ci sono, anche se ho fatto di tutto per andar via. Sono le cinque, domani lo saranno ancora e ancora e ancora fin quando tu non entrerai di nuovo nella mia vita. Abbiamo un appuntamento e lo sappiamo entrambi. Questa volta ci sarò, sarò qui ad aspettarti, saranno le cinque e ti aspetterò. Riempirò questa stanza di tazze, vapore, zenzero e cannella. I nostri occhi si cercheranno per scorgersi tra i ricami di luce che ruberemo al sole, si parleranno come se fosse la prima volta, oltre il vapore, la paura, l’esitazione. Le nostre mani stringeranno quel filo che non hanno mai lasciato andare, faremo l’amore. Audacia e dolcezza. Zenzero e cannella. Noi.








[Per tutti quegli appuntamenti che non c'erano...]