Attesa, 1965, Fontana
Rossa Speranza, distesa sull'asfalto, sei mia
vittima innocente.
Sono quell'attimo prima che accada qualcosa,
quando si ha il presentimento che accadrà, cadendo da una qualche altura verso
la quale si puntava lo sguardo prima di andare a dormire, quando le membra
stanche gridavano il riposo, ma gli occhi ancora puntavano alla vetta, in un
ultimo, sospirato, attimo di speranza.
Sono lì, proprio in quel gesto che si solleva,
che sta teso fino a farsi male, come lo stare in punta di piedi di una
ballerina ansiosa.
Sono lì, in quel crampo allo stomaco, quando
ancora non si arriva alla coscienza del dolore, dell'interruzione, ma già gli
acidi si mettono al lavoro dall'interno, e cominciano a corrodere un bel
sentimento.
Sono lì, con lo sforzo del capo sollevato,
quando il collo non riesce più a sostenere il peso di tutti quei pensieri
d'amore che si stanno spegnendo; non sono riusciti a trovare un modo per
volare, per farsi ascoltare o accogliere da uno sguardo altrettanto innamorato.
Sono lì, nella mano che puntava alle stelle,
quando perde la sicurezza e comincia a tremare e l'indice si fa pesante, sta
per perdere la strada verso il cielo.
Sono lì, ora. E cado.
Vado lentamente, non voglio che finisca subito,
perché sento ancora la tensione dell'amore, perché anche "l'attimo
prima" ha un cuore che non ce la fa ad arrendersi.
E l'indice scivola sulla tela rossa, scivola
sulla speranza che pareva granito, un castello incrollabile da abitare.
Il capo s'abbassa, ha perso di vista il cielo e
le spalle si sono fatte pesanti.
Lo stomaco s'agita, ché pure quello ama, ma che
deve fare, preso dalle correnti acide del dispiacere, della mancanza e del
desiderio mai realizzato.
Precipitare più lentamente di così non posso,
perché il dolore è troppo, soffoca, e per respirare devo aprire il varco.
Perdonami Speranza, sono così stanco di patire,
pago la mia presunzione, ho preteso di essere un'eternità, l'ho fatto per loro,
perché vedevo il loro amore, come te, e
volevo aiutarlo a fiorire. Ma non ci sono riuscito. Ho capito che non spetta ad
un solo attimo racchiudere un così grande sentimento, per quello, ci vuole più
tempo.
Facevo un torto a loro, costringendoli a
rivivermi all'infinito, costringendoli a tenere insieme tutto. E così ho finito
per sospenderli in un unico gesto, li ho stretti lì, stritolandoli. Per questo
ti ho ferito Speranza, e ho ferito me stesso, per lasciarli riprendere fiato. (*)
Red Plastic, 1964, Burri
Siamo così. Due voragini scure accartocciate in quello che prima era ed
ora non è. Due maschere senza volto che, in fondo, si sono riconosciute,
vissute, confuse e che si lasciano andare. Tra un lembo e l’altro di una storia
che si chiude. Su se stessa, su tutto quello che ha animato la scena e che,
ora, viene ingoiato dalla tenda rossa e malandata di un teatro di periferia.
Uno di quelli con le poltrone scolorite, il tendone logoro, le locandine
impolverate, capovolte e dimenticate. Uno di quei posti dove va solo chi ha
nostalgia di ciò che un tempo era e ora non è più. Per non dimenticare, per
chiudere gli occhi e vedere, ancora una volta, le poltrone di velluto rosso
fiammante, il tendone rubino che apre la scena su tutto quello che deve
accadere, il vociare eccitato del pubblico che ammutolisce appena le luci si
spengono e l’occhio di bue diventa una buona scusa per sbirciare. In una storia
che non conosciamo, che è di tutti e di nessuno, che è inevitabilmente anche la
nostra. Il tendone si chiude, gli occhi si aprono. Il teatro sta cadendo a
pezzi e noi ci stiamo dentro. Non scappiamo. Restiamo lì e ci facciamo
ingoiare. Le maschere si sciolgono e in un attimo è buio. Non c’è più niente.
Non ci siamo più.
[Grazie a Miriam Catera per aver dato voce all'Attesa di Fontana (*) e per aver regalato a questo post la colonna sonora]
[Per quanto riguarda Burri... spero non si arrabbi con me :D ]
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