L’amore è
miope di Valentina Luberto (Pubgold, 2017) si presta a
una lettura di formazione, per non dire strettamente educativa, sull’approccio
all’amore e alle sue insidie. Una gradevole, scanzonata ars amandi. E, come si
conviene a una lezioncina comportamentale nei modi classici del magistero, dividiamo
in settori una fantomatica lavagna nei quali riporteremo il numero dei
protagonisti, la loro appartenenza di genere. Tenendo conto dei destinatari
ideali di questi ammiccanti racconti, come dice con sagace ironia l’autrice, cioè
degli innamorati o aspiranti tali dai trentacinque ai quindici anni. Ecco,
tracciamo la linea di appartenenza di genere: da una parte lui, dall’altra lei,
riservando una colonnina alle coppie. Non c’è storia d’amore in cui l’uno non si
accompagni al due o a più. Da Paolo e Francesca, personaggi altolocati, a
Paperino e Paperina, Minnie e Topolino fino, nel nostro caso, a Gustavo e
Guendalina. Nella dualità, come tutti sanno, si determina l’epifania delle
miopie (o di tutte le altre perdonabili o imperdonabili deficienze amorose), a
tu per tu. Vis à vis e qualche volta persino ceek to ceek.
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Stando
al numero vincerebbero quindi le femmine. Sarebbero loro a soffrire più di
frequente della miopia amorosa? Non possiamo dirlo con verità scientifica. Il
campione ci pare esiguo anche se esilarante. Ma anche i maschietti non
scherzano. Loro sono più subdoli: sono miopi, ma gli occhiali li portano nel
taschino per ogni evenienza (avvertimento della copertina). La coppia n.1
merita un discorso a parte, sono i miopi delle soap, frutto di sceneggiatori
perversi che li manovrano per tenere alto lo share. Loro, gli amanti, si
riconoscono e non si conoscono mai davvero. Per questo saranno costretti a
sposarsi ripetutamente a distanza persino di decenni.
Il
prologo funge da avvertimento: Guai a voi anime miopi! Spiega il convincimento
della voce narrante, è insieme anamnesi, eziologia e terapia (e chi ha orecchie
per intendere, intenda).
L’epilogo
invece rappresenta insieme il ricordo e il sollievo dello scampato pericolo.
Ironico, e nuovamente ammiccante, ci rivela il biografismo delle esperienze
risolte nel catartico sorriso finale.
Il
bravo docente si fermerebbe qui: la struttura è questa, ora vedetevela voi a
identificarvi nell’uno o nell’altro personaggio. Impariamo a ridere di noi
stessi, e gli occhiali non lasciamoli nel taschino o nella borsetta. Inforchiamoli
sempre. Ci risparmieremmo qualche capitombolo, guadagnando in tranquillità,
dice la voce narrante. Ma c’è davvero, nel range di età succitata, qualcuno che
si ponga la tranquillità come obbiettivo? Cara la mia autrice, hai voglia a
raccomandazioni. Sulla tua certezza, mi permetto di sorridere a mia volta. Ma
quando mai!
Ringrazio Maria Sardella per aver letto "L'amore è miope" e per aver voluto parlarne in questo modo così originale. Che posso dire? Nonostante tutto, credo che gli occhiali nel taschino non imparerò mai a tenerli, con buona pace del mio tribolante cuor.
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