27 aprile 2011

D'improvviso

Giovane donna di spalle con capelli raccolti, Renato Costrini 

 

Siamo qui, ancora una volta insieme in questo incontro mascherato da scontro.
Mi guardi e sorridendo dici: «Ci conosciamo.»
Ti aspetti che sorrida anch’io, lo faccio per un istante e poi penso: Ci conosciamo?
Ti guardo e mi sembra d’incontrarti per la prima volta. No, non come la prima volta. Non ti conosco e tu non conosci me, adesso. Non sai chi sono, ora non più e chissà se tu l’abbia mai davvero saputo.
Quanto sei distante da quel pomeriggio di novembre in cui ci siamo detti addio?
Addio, come se bastasse dirlo per lasciarsi andare, come se cinque inutili lettere possano quietare il ritmo sfrenato di un cuore che non ha nessuna intenzione di far battere il tempo alla ragione.
«Ragiona» dicevi.
«Pensa» continuavi.
«Rifletti» cercavi di convincermi.
«Senti» ribattevo.
«Sta’ zitto e senti! Senti come batte questo cuore che ha un tempo tutto suo, senti come profuma questa pioggia che offre riparo all’ultima preghiera dei miei occhi».
E tu?
Tu ragionavi, pensavi, riflettevi.
E io?
Io sentivo.
Non ti riconoscevo, come adesso che con tanta facilità dici: «Ci conosciamo.»
No, non mi pare di conoscerti e mi chiedo anche se mai ci siamo incontrati davvero.
La prima volta sì, lì eravamo insieme.
Anche allora pioveva.
Pioveva tra le nostre mani strette nella prima promessa che ci siamo regalati, pioveva tra le labbra che sussurravano desideri di cui non riuscivamo a vergognarci, pioveva nell’abbraccio che ci univa ancor di più, nella stretta dei nostri vestiti bagnati.
Ci riconoscevamo, allora sì.
Io lo sentivo sentivi anche tu.
La stessa melodia, lo stesso ritmo felicemente disordinato, oltre ogni tempo, con l’unico tempo possibile: il nostro.
Tu, io e una partitura solo per noi.
Noi, nell’impazienza dei nostri corpi da scoprire, nella carezza di mani ormai esperte viaggiatrici di ogni singola linea dei nostri corpi, nella rincorsa degli sguardi in cui aspettavamo per lasciarci trovare.
Noi.
Sempre noi, in quel pomeriggio di novembre.
Pioveva. Non per stringerci in un abbraccio, per scivolare in un bacio o accompagnare la danza delle nostre mani.
Pioveva e la pioggia non era che custode discreta delle ultime note della nostra melodia.
Non più noi, ma tu, io e la ragione che pretendeva di dettare il tempo al battito del cuore.
Al tuo, perché il mio è sempre stato un cuore con un tempo tutto suo, che quando sa d’esser rimasto solo improvvisa: in modo originale, ma sempre a modo suo.
Così ti ho lasciato andare.
Ho lasciato andare te, i tuoi pensieri, le tue ragioni e riflessioni e ho continuato a sentire.
Siamo qui, ancora una volta.
Mi guardi, sorridi, aspetti.
Ti aspetti che ti riconosca.
Ti guardo anch’io e soddisfo la tua attesa.
«No, non ci conosciamo.»
«Aspetta.»
«Devo andare, il mio cuore non pensa d'aver tempo e ha una gran voglia d’improvvisare.»
È un nuovo per sempre che ti sto dedicando, e non importa che tu lo riconosca.






[Grazie a Noemi che mi ha regalato questa canzone e a questa storia che si è fatta raccontare]

2 commenti:

  1. Sono legata in maniera particolare a questo racconto, sono felice di averlo riletto :D Mi sento onorata *_* grazie a te :*

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  2. Se non mi avessi fatto ascoltare questa canzone, non mi avessi mostrato quella bella coreografia e io non mi fossi arrabbiata tanto (non con te, eh ;D) questo racconto non ci sarebbe mai stato!
    Anche io ci sono affezionata, per come è nato, per quello che mi ha fatto "vivere" e ri-vivere scriverlo e perché lo sento davvero mio.
    Baci

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