23 aprile 2012

Asterifughe ( di Valentina Luberto e Sario Laveneziana)


Non è colpa nostra se è fuggito via, noi stavamo solo riempiendo una mattina d'estate. Tra le 10,30 e le 11,00 non un minuto di più, forse in meno... qualcuno deve'esserci scappato.




- Ciao, sono un asterisco stralunato!
E Mirò lo sa che sei scappato?
-
Mirò mi ha fatto scappare in un morso della fame. Gnam! E son fuggito via.
Ho visto che ti ha inseguito, ora è senza fiato e ancora più affamato. Non pensi che   scappare sia stato un po’ avventato?
Forse perché ha pochi denti nella bocca e non voglio rovinare questa bella filastrocca.
Le filastrocche son fatte proprio per essere stroncate, ma senza denti come possono essere addentate
Filastrocche stroncate come i tronchi degli alberi maestri e dei vascelli studenti modello.
Di alberi e vascelli non conosco che il suono del venticello e non son brava ad insegnar nemmeno quello. Prometto di non dire a Mirò d’averti visto, ma prometti che ripasserai per un sorriso al momento giusto.

Personaggi ed interpreti:

Asterisco stralunato: Sario Laveneziana
Testimone involontario dell'asterifuga: Valentina Luberto
Responsabile della locandina: Mirò

21 aprile 2012

interrogativi accartocciati





Sono appena tornata dall’ufficio postale. Amo gli uffici postali, credo di averne visitati un mucchio, in ogni città. L’ufficio postale ti permette di raggiungere qualcuno di speciale con un pensiero che potrà stringere tra le mani, insomma è un po’ come se il destinatario del pensiero stringesse te. Mi sono meno simpatici quando devo pagare bollette o fare file interminabili, ma anche in quei casi trovo qualcosa da fare per distrarmi oppure lo trovano gli impiegati delle poste che, un paio di volte, volevano farmi fidanzare con qualcuno… va be’. Sorrido. Questa volta non c’era da inviare nessun pensiero, non c’era nemmeno da attendere. C’eravamo io e una faccenda da sbrigare. Ho appena tolto il cappotto che mi sembra assurdo dover indossare in questo periodo, ma il freddo di questi giorni mi ricorda che di certezze nella vita ce ne sono ben poche e che farei meglio ad abituarmi all’idea. Lascio la mia camera per andare a sedermi sul divano rosso nella stanza a fianco. Faccio poco caso a quello che mi circonda, ho con me tre fogli bianchi, una penna e l’intenzione di scrivere quello che ho promesso avrei scritto. Devo rispondere a una domanda: “Cosa rischierei se accadesse quella cosa?”. La risposta che scrivo immediatamente è: niente! Lascio andare la penna, guardo verso il balcone e mi chiedo perché il sole oggi sia così indeciso. Indeciso, e io? Io sono davvero così convinta di quel: niente? Riprendo la penna, sistemo i fogli bianchi e ricomincio a scrivere. Quel niente inizia a trasformarsi in qualcosa. Prende spazio, sempre più spazio e io penso che quello che ho destinato alle invasioni emozionali è davvero poco per poter contenere sul serio quel “niente che è diventato qualcosa e che se non lo fermo chissà cosa diventerà”. Sono le 12.10, sto ancora scrivendo e so che tu che leggi ci avrai capito poco, ma ti assicuro che io ci sto capendo ancor meno di te. Mi sento in compagnia, adesso.



16 aprile 2012

Sentirsi

Goergia O' Keeffe

La stanza è in attesa. Bianca come la camicia che la sfiora nel suo dolce approdo sulle lenzuola blu di un letto disfatto. Lei la segue con lo sguardo, conosce i sentieri di quella camicia che altro non è che una nuvola a un passo dall'esser liberata. Prende tra le mani quel piccolo soffio di vita gonfiato da refoli di vento, invitati della finestra aperta e gioca. Le piace, gioca con le impronte d’un sogno sussurrato tra fili di cotone, gioca tra i ricordi d’una sera d’aprile che è andata via e resta nell’aroma indelebile di un viaggio appena iniziato e ancora tutto da vivere. Un suono, soltanto uno perché questa mattina danzi sulle note della sua musica preferita. Pensare che credeva che un viaggio come quello non
sarebbe più arrivato. Lo pensava e sapeva di dire una bugia, lei in quel viaggio, ci credeva più che a qualsiasi cosa. Aveva un biglietto pronto, no, non aveva un solo biglietto, ne aveva due. Ama viaggiare in compagnia, ridere e disegnare il sorriso di lui sulle sue labbra. Lei lo aspettava, il suo compagno di viaggio, e lui è arrivato con un sorriso più bello di quello che potesse immaginare e si è scoperta bravissima a disegnarlo. Si guarda allo specchio, guarda i suoi occhi che non smettono di sorridere, indossa la camicia e la stringe a sé più che può, chiude gli occhi e inizia a danzare. Il suo sorriso diventa sempre più luminoso, non si sente più stupida, neppure guardando allo specchio quell’improbabile ballerina dall’aria assonnata e i capelli spettinati. È bella, come non lo è mai stata, non ha altro che una camicia bianca stropicciata e un sorriso, non ha altro che lei nel modo più bello in cui possa avere sé stessa. Ama, ama d’un amore che non chiede, che vive del sorriso degli occhi, un amore in cui l’uno non s’accontenta più di quella stanghetta e quell’uncino e cerca l’abbraccio della curva del due, un amore come quello che danza, mentre si stringe a occhi chiusi in quella nuvola bianca. Un suono improvviso, quasi non lo sente, non ha bisogno di parole per continuare a danzare, mentre sussurra: ”Stiamo danzando, lo sai?” . Lui lo sa e lo sa anche lei, mentre, si lascia cadere esausta e felice tra le lenzuola blu a cui restituisce quella macchia bianca che altro non è che un soffio di vita. Adesso lo sente, si sente.


Ahi!


Informal unity, Olbinski

Due lettere, solo due e la vita può cambiare nel tempo in cui le pronunci: in un attimo.
Tanto è il tempo che mi sono concessa per srotolare la mia vita e attorcigliarla l’istante dopo!
Che si scelga il sinuoso “sì” o il labirintico “no”, la conclusione è sempre la stessa: si attorciglia sempre tutto!
Pensate siano tanto diversi?
Io dico di no e scommetto che, se mi concedeste un pizzico di tempo, potreste pensarla anche voi come me.
Un pizzico, niente di più, anche perché so che finirete anche voi con l'esclamare: ”Ahi!”
Il “sì”: linea sinuosa, curve rassicuranti che paiono abbracciare, quasi una culla su cui dondolarsi.
Vi vedo, siete rilassati, sereni, anche sul vostro viso si disegna una curva: è un sorriso.
Dimenticate la “I”!
È la “i” che vi porta alla realtà, vi punge come un ago, vi taglia come lama di spada, vi arresta come una barriera.
Vi svegliate dal sogno e, sul viso, la curva è in bilico tra il sorriso e il broncio.
Per il momento, la linea è orizzontale: siete indecisi.
Quale dei due aspetti del “sì” far prevalere: la culla o la lama?
Ecco il “no”.

Quella “n” non pare promettere niente di buono, è un labirinto, ha salite faticose e discese repentine, come quelle che tolgono il fiato creando vuoti d’aria, poi un’altra salita.
Chiudete gli occhi e non per addormentarvi: avete paura di non riuscire ad affrontare la salita, che il respiro si arresti nel percorrere la discesa e di non aver forza per ricominciare a scalare.
Dove avete messo la “o”?
Guardatela: è una palla che v’invita a giocare, una bolla di sapone da soffiare, un abbraccio pieno e rassicurante a cui affidarsi.
Aprite gli occhi, non riuscite ad evitare di spalancarli, pensate che tutta quella fatica vale la pena se il compenso è affondare dolcemente nell’accogliente giaciglio della “o”.
Cosa decidete di afferrare del “no”: la salita o il morbido giaciglio?
“Ahi!”
Non abbiate timore né provate imbarazzo, anch’io, la prima volta che ho esplorato queste due coppie di letterine, ho sentito un bel pizzico.

Lo sento ancora adesso, tutte le volte che, dopo la comparsa dell’uncino, trattengo i miei dubbi per lasciarli andare in un “Ahi!”.


15 aprile 2012

Imbarazzo carota


Immagine di Alessandro Gottardo (AKA Shout)

Da quando è successo e si sono visti non sono riusciti a dirsi nulla, soltanto sguardi furtivi e sorrisi appena accennati. Lei gli fa strada in cucina, indossa ancora un grembiule sporco di farina, i capelli raccolti e l’espressione imbarazzata. Lui la segue, la guarda quando non se ne accorge, siede dove lei gli ha indicato e poggia le mani sul tavolo, è in attesa.
Sono emozionati entrambi, non se lo dicono, non serve.
Lucia prende un piatto rotondo su cui pare riposarsi una nuvola arancio che profuma di burro, farina, zucchero, lievito, mandorle e carote. Ne taglia con delicatezza una fetta che sorprende Giacomo con la sua farcitura immacolata. Il silenzio è rotto dal suono di due cucchiaini che si incontrano, come i loro occhi.
Le parole iniziano a danzare come sanno fare in momenti come questi.
Conducono loro, dove vogliono.
«Assaggia.»
«Cos’è?»
«Torta di carote!»
«Cosa c’è dentro?»
«Carote, ovvio?»
«Poi?»
«Poi è successo, cosa vuoi che ti dica?»
«Niente, non dico niente.»
«E tu, pensi di cavartela così?»
«Ti ho fatto una domanda e non mi hai risposto.»
«Quale?»
«Oltre le carote cosa c’è?»
«Cosa? Vieni qui, entri, non dici una parola e quando ti chiedo di dire qualcosa, cosa ti  viene in mente? Mi chiedi la lista degli ingredienti della torta.»
«È importante, tu non hai mai saputo cucinare la torta di carote.»
«Non volevo, è successo, non so cosa mi sia preso e lo so che adesso pensi sia pazza, però…
Un momento, come non so cucinare la torta di carote! E tutte le volte che te l’ho fatta assaggiare e hai detto che era buona?»
«Non sapevo ci andasse la crema nella torta di carote. Cos’è questa roba bianca?»
«Sei serio? Comunque, non è crema»
«È dolce.»
«Di’ pure ridicola. Non so se volessi essere dolce, però, volevo succedesse, da tanto. Forse non proprio così, ma è inutile pensarci ancora, ormai è andata.»
«Mi piace! Sì, mi piace, tanto, qualunque cosa sia.»
«Ecco, neppure io so definire cosa sia. Forse, ho paura, non so. So che succede tutte le volte che siamo insieme e anche quando non ci sei per troppo tempo perciò oggi, quando sei andato via così dopo aver letto…
Dovevo parlarti, capire. Se solo fossi stata attenta con quella mail.»
«Forse un po’ di pepe rosa, può sembrare audace, ma devo aver letto da qualche parte che con la carota va benissimo, magari mi sbaglio, ma sai che ti dico? Io ce lo metterei!»
«Dici che dovrei osare? Oh, so che può essere imbarazzante parlarne, ma smettila di usare metafore e vai dritto al punto.»
«Ok, ma prima dimmi cos’è questa roba bianca.»
«Bavarese alla vaniglia, è la prima volta che la faccio, non garantisco sulla riuscita. Lascia stare la bavarese, quindi?»
«Ti amo anch’io.»
«Ecco lo sapevo, non dovevi scoprirlo così, per errore, dovevo essere io a dirtelo. Ora è tutto rovinato!»
«Lucia, ho appena detto che ti amo.»
«Quasi rimpiango il tuo interessamento per gli ingredienti della torta. Mi... mi ami? Sul serio?»
«Sì e avresti dovuto capirlo da un pezzo. Se qualche volta decidessi di scendere dalla nuvoletta dei tuoi pensieri, scrutassi con più attenzione la realtà e soprattutto prendessi un po’ fiato e ascoltassi, magari, sarebbe stato chiaro anche per te e avresti potuto evitare di inviare quella mail a tutto l’ufficio, compreso il capo. Ti avrei amata lo stesso, anche con una dichiarazione più intima.»
«Sei sempre il solito, se non mi vedi arrossire non sei contento, è dai tempi dell’università che ti diverti a colorarmi le guance di rosso.»
«È dai tempi dell’università che cerco di farti capire che voglio stare con te.»
«Vuoi ancora?»
«Sì, ma solo se mi fai una promessa.»
«Chiedimi quello che vuoi.»
«Niente più torte di carote. Sono anni che faccio finta che mi piaccia solo per vederti sorridere con il naso ancora sporco di farina. Sei buffissima quando lo fai.»
«Va bene, da domani niente più torta di carote. Se provassi con la torta di mele?»
Nessuna risposta, solo un bacio e qualche segno di farina anche sul viso di Giacomo, felice per esser riuscito a zittire Lucia nel più dolce dei modi e anche per non dover più mangiare torte di carote.
Una cosa, però, doveva ammetterla: quella farcitura era talmente buona che quasi gli aveva fatto dimenticare il timore che lei potesse dirgli qualcosa di diverso da quello che sperava.


10 aprile 2012

un sacco di


Il punto bianco, Kandinskij


Ho rubato una canzone, una parola e un pensiero. Mi piace mettere le cose in chiaro sin dall’inizio. Mi serviva una di quelle canzoni che ti fanno venire i lucciconi, una di quelle che dici: “Non riesco a mandar giù più niente” (… eppure non ho mangiato i peperoni?!) questa parte qui la pensi ché non è tanto elegante parlare di peperoni (almeno credo). Ecco, ho messo nel sacco (ho un sacco? I ladri hanno sempre un sacco!) quella che stai ascoltando. Non so nemmeno se è una canzone da lucciconi (per me sì), ma… boh, ci sto scrivendo su e te la tieni (che poi io non scrivo mai sulle canzoni che uso… tranne questa volta o giù di lì). La parola che ho rubato è: “bianco”. Sentivo freddo, un freddo bianco, ecco (come la neve? Fammi pensare: no, come il gelato. Si sa che ai ladri piace il gelato. Lo sanno tutti. Io sono una ladra - alle prime armi - e mi piace, dunque facciamo un sillogismo: Tutti i ladri amano il gelato –  Io sono una ladra – Io amo il gelato. Dovrebbe essere così, se non lo fosse: Prof di logica che mi hai voluto tanto bene, perdonami! Comunque, leggilo al contrario e vedrai che ho ragione). Ho messo anche il “bianco” nel sacco (è sempre quello di prima in cui ho infilato la canzone) ed è stato tutto un po’ meno buio. Mi mancava qualcosa, qualcosa di difficile da rubare, insomma, qualcosa che ti fa dire: “Ehi, mica sono una ladra di pere, io?” (... quello che una volta ha rubato le pere era S. Agostino, quindi anche se rubassi le pere potresti dire: “Accipicchia!”. Qui ci starebbe un altro sillogismo, ma poi troppe cose nel sacco non ci vanno e… nulla, il sillogismo te lo scrivo la prossima volta). Un pensiero, ho rubato un pensiero! Non guardarmi male, dovevo farlo, mancava solo lui nel sacco. L’ho fatto piano, con la stessa cura con cui si sciolgono i nastri di raso dei regali più belli. Lo so che non me l’hai regalato e l’ho rubato, ma era per riempire il mio sacco che cantava la canzone, mentre cercava  un po’ di bianco ché lì dentro era davvero troppo buio, nonostante i lucciconi.







3 aprile 2012

Qq


Una locomotiva, Angelo Titonel

Quando una locomotiva si avvicina a una stazione ci si aspetta che rallenti e si fermi. Sì, si ferma, quasi sempre si ferma. Eppure quel “quasi”… tante volte, quel “quasi” ci mette del suo. È colpa della “Q”, non è una lettera come le altre. La “q” è una lettera irriverente! L’hai mai guardata? Già, dipende da come la scrivi. Scrivila! In maiuscolo: Q; è una O che ti fa lo sgambetto o una linguaccia, scegli tu come farti prendere in giro. In minuscolo: q; è una p che ha deciso di confonderti e girarsi nella direzione contraria. Come le locomotive. No, le locomotive non possono girarsi, mai. Rallentano e si fermano quando incontrano le stazioni, è quasi sempre così. Quasi. Dov’eravamo rimasti? All’inizio del viaggio,  ci sono io che sono ferma alla stazione e non aspetto che si fermi la locomotiva, perché di quel “quasi” io proprio non mi fido. Anche se non aspetto, di fatto, sto aspettando. Stropiccio un foglio di carta imbrattato di parole che non ricordo. Le ho scritte io? Non ricordo. Le parole sono sulle mie mani, adesso sono mie. Mi siedo su una panchina verde che sa ancora di vernice, controllo che i pois della gonna non siano stati ingabbiati dalle righe verdi. L’odore di vernice è così forte che faccio uno starnuto, mentre un sospiro mi solleva dalla scoperta che i pois della mia gonna sono ancora liberi. Fiù… i pois tra le sbarre sono tristi. E lo so che le sbarre sarebbero state verdi, ma più che di speranze i miei pois hanno bisogno di certezze. Sorrido. Di quel “quasi”, della mia gonna a pois e anche della locomotiva che sta per arrivare. Aspetto. Solo il tempo che quel “quasi” sia o fugga via. Chiudo gli occhi. La locomotiva non si ferma, non si ferma, non si ferma. So che è così. Arriva, una nuvola grigia ingoia la striscia d’azzurro tra le pensiline dei binari. Fa per rallentare. Non si ferma, non si ferma, non si ferma. Le locomotive non si possono girare, non si guardano mai indietro, percorrono gli stessi luoghi fissando ciò che hanno di fronte, ricordano quello che c’è dietro quando lo incontrano di nuovo, poi rallentano e si fermano quasi sempre alle stazioni, quasi. Arriva. Non si ferma, non si ferma, non si ferma. Ciuf, ciuf, ciuf e… È fuggita via, irriverente! Come la linguaccia o lo sgambetto della O o la confusione della p. Lo avevo detto che la Qq ci avrebbe messo del suo. Succede quasi sempre così, quasi. Lascio qualche pois sulla panchina e vado via. Prima o poi dovrò tornare a riprenderli…




E se ti stai chiedendo cosa c’entri la canzone con le locomotive, i pois, le parole scivolate sulle mani e tutto il resto… chiedilo alla
Qq, è quasi sempre colpa sua! [… e di Noemi che un giorno me l’ha fatta ascoltare.]


1 aprile 2012

Sipario

 




Buio

Chiude gli occhi, pece liquida inghiottita dal velluto rosso.
Lascia andare le braccia, si abbandonano, sedotte dalla promessa del riposo dopo la fatica. Le dita scivolano, sfiorano le corde di una chitarra che non c’è.

Musica

Ultime gocce di una melodia che appartiene alle illusioni lasciate in dono agli occhi che le aspettavano. Viene da lontano, la melodia impigliata nelle corde della chitarra che non c’è. Non vuole lasciarla andare, la trattiene per quel poco che può, non è più di tutti. È solo per lui, adesso.

Silenzio

Le ultime note lo accompagnano nel luogo del silenzio e dell’incontro con le sue illusioni, al cui segreto anela senza riuscire a stringerlo mai del tutto, non vuole. Le riserva a sé, non agli occhi bramosi che sfama con i suoi giochi in equilibrio tra il reale e l’irreale.

Lei

Nel luogo del silenzio e dell’illusione che non può essere svelata c’è Lei. Lo aspetta. Non ne ricorda quasi più il volto, non è importante: Lei ha un’anima luminosa e viva, lui la sente. Non la lascia andare, come la melodia della chitarra che non c’è. Lui sa che la troverà lì tutte le volte che ne avrà desiderio. Lo aspetterà nel luogo del silenzio per vivere insieme l’illusione che non può essere svelata, quel che non c’è più e che lui non riesce a lasciare andare.

Via

Insieme a Lei. Pochi istanti, prima d’esser solo, prima che sia di nuovo creatore per gli occhi bramosi di meraviglia, prima che tutto sia di nuovo luce, musica, fumo, voci e stupore.
Illusione nell’illusione d’essere per tutti ciò che desiderano che sia: volo, gioco di carte e luci, presenza e assenza, meraviglia sospesa tra un movimento di mani e uno sguardo, tra la premonizione e il reale, magia, tra ciò che è e ciò che potrebbe.

Respiro

Profondo, prima di lasciare Lei per ritrovarla ancora. Respira, mentre il luogo del silenzio viene inondato di musica. Scompare. Lei non c’è più, ha portato con sé il segreto dell’illusione che non può essere svelata. Lui gliel’ha lasciata in dono per poterla ritrovare.

Luce

Apre gli occhi, pece liquida che squarcia il velluto rosso.
Solleva le braccia, non c’è più nessuna chitarra che non c’è, un passo e il suono delle mani che applaudono è musica. Pochi istanti e tutto inizierà, di nuovo.
Gli occhi bramosi di meraviglia saranno saziati con le illusioni che non hanno segreti per lui, quelle che dimorano nel luogo delle voci e dello stupore.  Dove ci sono tutti, meno che Lei. Dove lui s’illude d’essere, per poi rifugiarsi nell’unico luogo in cui è per davvero. Anche se quel luogo non c’è, anche se tutto quello che le sue mani, le sue parole e i suoi occhi stanno per creare non è poi così sicuro ci sia.

Illusioni

Dolce riposo d'anima e occhi.